La vittoria o la sconfitta, cosa comunica di più?

4 Dicembre 2016

Cronaca delle ultime ore di campagna elettorale negli USA.  Il noto manager di comunicazione internazionale e giornalista, Bruno Carenini, ha seguito per conto di diverse televisioni locali e regionali italiane, gli ultimi istanti della battaglia mediatica tra la Clinton e Trump. Ecco il suo racconto.

Sono trascorsi più di trenta giorni da quelle indimenticabili quarantott’ore nella storia d’America. Ore in cui, perfino la Costituzione in vigore dal lontano 1789 ha parso vacillare ad ogni singolo cittadino colpito nella propria ideologia politica, colma di valori, criteri e azioni destinate a sollecitare crescita, prosperità e pace all’imminente futuro. Gli storici l’hanno già etichettata nei libri di testo e saggistica come la peggior campagna elettorale di tutti i tempi, grazie a due candidati poco graditi e dall’ego spropositato. Mentre scrivo, il 45° Presidente Eletto sta attuando la transizione verso la “White House”, componendo la scacchiera del potere con pedine che solo in parte riflettono quanto a gran voce “gridato e promesso” nei i comizi elettorali. Oggi è ufficiale, 80mila voti in tre “Swing States” hanno deciso il vincitore, ma anche la sconfitta ha stabilito un vantaggio nel voto popolare di 2,5 milioni di elettori, davvero insolito. Stati Uniti mica tanto, verrebbe da dire ! Il quadro per gli analisti, idealizza un Paese diviso nel quale i democratici perdenti per la seconda volta, dopo le sollecitazioni del vecchio “Sanders”, mettono in dubbio la validità di un sistema elettorale basato sull’espressione di rappresentanti chiamati “Grandi Elettori”. Ci hanno provato in tanti e anche questa volta, nonostante le violente manifestazioni di protesta dei giorni seguenti l’elezione e lo sdegno o mancato diplomatico assenso al neo eletto da parte della Comunità Internazionale, tutto filerà liscio come sempre e il 19 dicembre il Congresso a mani libere, dichiarerà Donald Trump Presidente degli Stati Uniti d’America. Prima di ipotizzare però, attraverso dati, informazioni e previsioni cosa aspetta l’assetto geo-politico-sociale ed economico mondiale, soffermiamoci su quelle quarantott’ore. Rewind : 7 novembre New York, residenza dei rispettivi “head quarter” dei candidati. Le tv via cavo inondano di spot elettorali “comparativi”, peccato di pessimo gusto rasentando l’offesa e la denigrazione personale. Agli stessi, visibili in ogni videowall nei centri commerciali o tv di esercizi pubblici, si alternano dirette da studi televisivi gremiti di giornalisti esperti di politica americana, estera ed ovviamente presidenziali. A rompere fiumi di parole dei due schieramenti sono le finestre dedicate ai ”polls”. Calma apparente che riflette l’umore dell’ultima settimana. Nonostante la riapertura del caso “mailgate” da parte dell’FBI e successiva chiusura (tardiva), Hillary Clinton tiene il passo con un 4% di vantaggio sul candidato repubblicano. Nella grande mela, dove l’Ex Segretario di Stato potrà contare sulla maggioranza assoluta dei voti, è rado imbattersi nei pochi e sparuti comizi di parte repubblicana. Gli stessi sono quanto mai folcloristici e dai toni aggressivi. Visito a Brooklyn l’edificio che ospita lo staff direzionale della Campagna Clinton: giovani sui cui volti aleggia una visibile preoccupazione, sono davanti a decine di monitor, alternano gli sguardi su siti specializzati in sondaggi a chiamate mordi e fuggi sugli smartphone. Alcuni, rispondono alterati all’interlocutore, possibile collega impegnato nei quartieri del Paese col “door to door” per convincere gli indecisi dell’ultim’ora. Altri, visibilmente provati per la corrosione del vantaggio delle ultime giornate, predispongono ai muri giganteschi poster raffiguranti gli Stati e le proiezioni di “Real Politics”. Hanno disposizioni di non rilasciare dichiarazioni e solo dopo un’ora di anticamera, manco fossi un appendino, una ragazza di colore, Johanna, 28 anni del New Jersey, laureata in sociologia, mentre sorseggia una tazza di caffè mi confida il timore che qualcosa non andrà come previsto. Fonti ai dipartimenti e fedelissimi nei punti chiave delle maggiori sedi del partito negli Stati, inviano segnali poco incoraggianti. Le chiedo se i giovani che hanno sostenuto “Sanders” appoggeranno davvero Hillary e soprattutto se i nuovi elettori, giovanissimi anch’essi, sapranno scegliere emotivamente o per partito preso. Riflette. Si scosta i lunghi capelli nerissimi e sospira. “No, la massa che ha sorretto “Bernie”, lo chiama per nome, non è convinta sulla scelta di una candidata simbolo del denaro e del potere dei clan, almeno la metà diserteranno i seggi come pure i nuovi maggiorenni. Peccato”. Ringrazio, saluto e torno in centro. Trascorro la serata godendomi via cavo, i comizi finali dei candidati. Quello di Philadelphia, è una sfilata d’establishment dinnanzi a più di 30 mila potenziali elettori : Kaine, Biden, Chelsea, Bill, l’amatissima First Lady Michelle e il grande comunicatore, Barak Obama. E’ lui a preparare il terreno, irriducibile, trascinatore come non mai, incendia la folla intervenuta incitandola a votare per la continuità, la stabilità, l’unità ma soprattutto per i diritti di ogni americano, è così che acclama Hillary Clinton che entra sul palco sentendosi già Presidente. Pare sicura, non traspare timore, insicurezza, evidenzia di aver riconquistato una speranza offuscata trasmettendo determinazione nel suo discorso, l’ultimo trionfante, prima che il sipario cali definitivamente su di lei e famiglia. Inutile la presenza di star mondiali come Bon Jovi e Bruce Springsteen, i giovani ascolteranno i loro brevi concerti ma non i subliminali messaggi che le due rockstar inviano. Cambio canale, scelgo la NBC dove le immagini in diretta giungono da Manchester in New Hampshire. Lui è solo sul palco dietro un leggìo. Berrettino rosso, giacca blu e camicia. Arringa i convenuti giovani, donne, uomini, bianchi dal volto duro, arrabbiato e solo quando Mr. Donald cita parole come immigrazione, occupazione, corruzione, si lasciano andare a sorrisi e battimani scroscianti oppure sventolando striscioni Trump-Pence. Seduto in poltrona, ho un presentimento, avverto come fossi in ambedue le platee, la differenza di reazione dei convenuti: il pubblico della Clinton segue un manuale già collaudato, quasi protagonista di una sceneggiatura; quello di Trump è viscerale nelle sue reazioni, sentitamente convinto di ciò che desidera per il Paese e del candidato che dovrà rappresentarlo. Per un esperto di comunicazione e di sociologia vi sono sufficienti indizi per predisporsi ad un “coup de theatre” direbbero i francesi. Domani il verdetto finale, la democrazia, protagonista assoluta. 8 novembre. Le tv indicano alta affluenza alle urne, informando che proprio causa lunghe file i risultati subiranno ritardi. La metropoli sembra la stessa di tutti i giorni, con moltitudini di turisti, lavoratori newyorkesi impegnati nel loro ritmico quotidiano, mentre le piazze si preparano a seguire i risultati e i successivi festeggiamenti. I candidati sono rispettivamente in due hotel a poca distanza. Fitht Av e Sixth Av. Cala la sera, decido per Time Square. Sette p.m ora locale. E’ già buio e le miriadi di luci campeggiano caratterizzando la grande piazza. Si chiudono i seggi, palpabile l’ansia di conoscere i primi exit poll. Accanto a me, moltissimi turisti, reporter, giornalisti, fotografi mischiati tra la folla, pochi i newyorkesi o americani, giungeranno col passare delle ore. Il chiasso, privato dai rombi delle auto, escluse dall’area, si tramuta improvvisamente in un inquietante silenzio; i mega schermi dell’ABC indicano un’ascesa costante e graduale di Donald Trump. Sui volti dei presenti l’incredulità traccia espressioni impensabili fino a pochi minuti prima. I conduttori degli studi televisivi mobili si affrettano a scendere coi microfoni tra la gente per catturare le prime impressioni, per nulla positive. E’ l’inizio dell’imprevedibile. Tre americani non giovani, rispettivamente provenienti da South Carolina, Colorado e Arkansans, commentano con passione e competenza i numeri e le percentuali che vedono man mano apparire. Si cimentano in ipotesi, proiezioni aggrappandosi alla speranza che gli Stati del Sud ancora non abbiano fornito risultati. Anche i commenti e i volti dei turisti non sembrano volgere all’ottimismo. Si passa, dal : sconvolgente, all’incredibile, non succederà davvero, oh my God… Il silenzio cala sempre più pesante su una piazza destinata a festeggiare la prima donna Presidente d’America. Decido di andare nella tana Clinton, al Jacob Javits Center. La scena che mi si pone agli occhi resterà fotogramma indelebile nella memoria. Sulle tribune, tremila supporters, muti con lo sguardo fisso al mega videowall. Madri abbracciano figlie o mariti. Giovani si stringono nelle spalle con le lacrime agli occhi. Un occhio di bue illumina un leggìo al centro di un palco sopraelevato che resterà vuoto raffigurando il simbolo di una tragedia non prevista. Sottovoce ci si comincia a chiedere cosa sia andato storto, di chi la colpa, dello staff, dei latinos, dei giovani o dei bianchi ? Tardi, molto tardi per ricostruire un sogno nel quale centinaia di migliaia di uomini e donne americane hanno creduto per un anno e mezzo sopravvivendo ad ostacoli, battaglie politiche e inchieste giudiziarie destinate a sgretolare un potere consolidato e troppo radicato. La storia democratica prima o poi rigurgita l’inefficace immobilismo di casta, si autoprotegge sollecitando ribellioni orizzontali, le più pericolose e capaci per chi è in cima al potere. Da migliaia di smartphone impazzano messaggi di sgomento, rabbia ma anche dolore, uno tra tutti però conquista la rete, con “Bernie” ce l’avremmo fatta. Ancora una volta i giovani segnano l’ago della bilancia in un progresso inarrestabile. Dalla Sixth Av. provengono urla di gioia, slogan e battimani sempre più forti. L’America ha scelto. Ha deciso di voltare pagina impugnando le proprie origini ed alzando il tono di voce sul resto del mondo. Populismo? No, democrazia dell’alternanza. Una maggioranza di americani ha preferito gli spari delle armi per la propria sicurezza, rispetto agli spari dei fuochi artificiali in caso di vittoria democratica, previsti e poi annullati dal ponte di Brooklyn. La festa è finita. Ed eccomi a concludere la narrazione di questo storico avvenimento. Tre settimane e cose ormai certe, i toni aggressivi e populisti uditi in campagna elettorale appaiono cosa passata, sono ammorbiditi e concilianti. Gli insulti verso il GOP repubblicano hanno ceduto il passo ad una riconciliazione di necessaria convivenza e spartizione del potere. La reticenza verso la grande finanza di potere ha lasciato socchiusa la porta del Neo Eletto Presidente, affinché due dei maggiori uomini rappresentanti multinazionali potessero accomodarsi occupando due posti ai vertici della cabina di regia presidenziale… poi dicono le promesse elettorali! Nepotismi e malesseri interni alla new family si materializzano giorno dopo giorno prima dell’insediamento ufficiale alla Casa Bianca, protagoniste Ivanka e Melania, per il genero appare tutto superato. Infine due ultime considerazioni. La prima riguarda il potere militare, assegnato ad un ex Falco vendicativo del Pentagono e già allontanato dall’amministrazione Obama, ci preannuncia tempi duri e bellicosi, mentre le multinazionali di armi e dotazioni militari accrescono il loro valore in borsa. La seconda, gli assetti geo economici commerciali con lo scacchiere mondiale. Le ultimissime da Washington e New York, avvertono i mercati: in cima alla lista degli eletti vi saranno Giappone, India, Russia, Inghilterra . Significativo l’asse per controbilanciare il potere cinese dei mercati, preoccupante l’assenza dell’Unione Europea ancora in piena crisi. Protezionismo leit-motiv strutturale, con eventualità di tasse elevatissime per chi delocalizza reimportando negli USA i prodotti, in mezzo a tutto ciò manca ancora un elemento per giudicare a fondo l’ipotetico futuro presidenziale, il Segretario di Stato, figura chiave per tenere alto potere, immagine e soprattutto il testimone della potenza più forte del mondo.

Good Luck Mr. President !

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