Employability: il lavoratore e il suo valore tridimensionale

6 Settembre 2020 The Ghost Writer*

Gli effetti causati dalla pandemia sul mercato del lavoro sono stati molteplici: da una parte il lockdown ha imposto un ripensamento, neppure troppo ragionato per via dell’emergenza, dei processi organizzativi, mettendo in discussione le modalità operative che coinvolgevano lavoratori e imprese, dall’altra ha accelerato quella rivoluzione da sempre auspicata e mai realmente e coraggiosamente attuata, ovvero la digitalizzazione dei processi di cui fa parte anche lo smart working.

Digitalizzare significa avere una visione d’avanguardia

E’ molto facile incorrere nell’errore di pensare che attraverso una maggiore flessibilità nei confronti dei lavoratori e un upgrade tecnologico dei sistemi di produzione si possa passare da impresa tradizionale ad innovativa. Alla base non ci sono adempimenti da compiere bensì una visione da capire e da sviluppare mettendo al centro gli individui con le proprie competenze. Recentemente il giornalista Riccardo Luna in un suo articolo ha riportato alcuni esempi di realtà aziendali, per lo più multinazionali estere, che nella ricerca di persone, anche senior, da inserire in organico, non consideravano prioritario per l’ingaggio il titolo di studio, bensì l’esperienza, la specializzazione e il valore delle softskill. Probabilmente anche i parametri di istruzione necessitano di un rinnovamento metodologico e contenutistico, sempre più orientato al mercato e alle sue evoluzioni. Un esempio è l’impropriamente battezzata Università di Google, ovvero la creazione di tre qualifiche specializzate che potranno essere raggiunte con sei mesi di studio a costi contenuti e che faranno curriculum in fase di selezione.  Un’esperienza che l’azienda della Silicon Valley ha già sperimentato con successo nel recente passato: un modo per preparare in modo concreto i lavoratori alle richieste di un mercato sempre più volubile e soggetto a scossoni.

Una recente analisi dell’ufficio studi della Cgia di Mestre mette in luce un dato che fa alquanto riflettere: quasi 6 milioni di occupati risultano sovraistruiti rispetto alle mansioni da loro ricoperte e questo provoca un abbassamento del livello di motivazione.

Cosa significa avere lavoratori sovraistruiti all’interno delle imprese?

Vuol dire aver rinunciato ad una fetta di competitività che sarebbe invece garantita valorizzando nel modo giusto i dipendenti e le loro competenze, professionali e personali. Vero è che la percentuale di sovraistruiti è cresciuta perché da una parte le aziende ricercano sempre più personale altamente specializzato, dall’altra sul mercato ci sono flotte di laureati senza molta esperienza sul campo. Seppur la sovraistruzione nel mondo del lavoro in Italia sia in continua ascesa, la popolazione italiana continua ad essere tra le meno scolarizzate d’Europa. Nel 2019, sempre secondo la Cgia, la quota di popolazione italiana tra i 25 e i 64 anni in possesso di almeno un titolo di studio secondario superiore era del 62,2%, un dato di molto inferiore rispetto ad esempio alla Francia 80,4%, il Regno Unito l’81,1% e la Germania l’86,6%.

Il passo evolutivo qual è?

E’ evidente, se si vuole pensare ad un mercato del lavoro che abbia un futuro sostenibile, che serve livellare il più possibile le esigenze delle imprese alla preparazione degli individui, puntando su competenze specialistiche e accorciando certi percorsi di studio, pensiamo alle discipline STEM. Le aziende oggi cercando rapidità di pensiero e di azione, problem solving, flessibiità e creatività visionario. A tutto questo occorre affiancare un processo di employer branding capace di influire positivamente sulla motivazione e quindi sulla produttività dei lavoratori: è il senso di appartenenza e di adesione alla mission aziendale. Fare parte di un’organizzazione significa condividerne i valori impegnandosi per raggiungere obiettivi di crescita individuali e collettivi. La differenza sta tutta qui.

* Articoli pubblicati su blog di Affari Italiani The Ghost Writer

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