Lotta al razzismo: i diritti civili la nuova frontiera del brand activism?

29 Giugno 2020 The Ghost Writer*

Black Lives Matter è il movimento a carattere internazionale promosso dalla comunità afroamericana per contrastare il razzismo e le diseguaglianze subite da uomini e donne dalla pelle nera. E’ diventato anche l’hashtag con cui Twitter ha cambiato descrizione e colore del proprio profilo, così come tante aziende e personaggi pubblici di fama mondiale si sono schierati contro qualunque forma di discriminazione. Il grave episodio della morte di George Floyd ha fatto riesplodere in modo planetario l’irrisolto problema dell’odio razziale.

“History will have to record that the greatest tragedy of this period of social transition was not the strident clamor of the bad people, but the appalling silence of the good people” è una delle tante illuminanti tracce lasciate da Martin Luther King. Forse è proprio l’ultima parte di questa frase “il silenzio spaventoso delle persone buone” ad aver colpito le grandi multinazionali inducendole a prendere una posizione netta in tema di lotta al razzismo, a non essere più neutrali rispetto alla società e ai suoi problemi.

Abbiamo assistito nelle ultime settimane a numerose iniziative di “brand activism” compiute da marchi conosciuti in tutto il mondo che hanno deciso di esporsi modificando i propri claim o addirittura riposizionando il brand di alcuni prodotti, il tutto per dare un segnale importante in tema di Diversity and Inclusion.

Che stia davvero cambiando qualcosa?

C’è chi scommette che sia solo una bolla del momento, esplosa per altro in una fase drammatica per le economie mondiali a causa degli effetti causati dalla pandemia, altri che siano operazioni di brand washing, certo è che in questo periodo le aziende hanno rimesso al centro delle proprie strategie la comunicazione corporate. Probabilmente hanno compreso, tra paura e opportunità, quanto sia fondamentale proteggere la reputazione e il valore dei propri brand e dei prodotti e servizi che ogni giorno ciascun cittadino acquista o beneficia in ogni angolo del pianeta. Prendere una posizione significa esporsi pubblicamente, e in un epoca in cui l’estremismo è in forte crescita, significa anche mettere in conto di perdere consenso, almeno da una parte.  

Quindi il brand ha una valore, è un valore, oppure è entrambe le cose?

Qualunque brand racchiude in se elementi valoriali distintivi che lo rendono unico e quindi anche “economicamente più forte”. La decisione spetta sempre al mercato, senza dubbio chi tutela la propria brand identity è attento anche a gestire al meglio la reputazione, questo rafforza la credibilità, l’ingaggio e il consenso anche in momenti di crisi sociale, oltre che di congiunture economiche negative. Serve però che gli slogan non rimangano tali, che si possa iniziare a parlare di nuovi modelli di cultura d’impresa, dove la diversity, la sostenibilità, la partecipazione attiva nelle comunità, la parità di genere, siano elementi di distinguo evolutivo per le aziende.

Come fare per ottenere tutto questo?

Occorre puntare su strategie di comunicazione che mettano al centro i valori dei brand, ovvero gli asset intangibili, che non si vedono e non si toccano, ma sono fortemente influenti quando occorre prendere una decisione. Non stiamo parlando di operazioni di marketing, bensì di un rinnovato pensiero imprenditoriale che deve necessariamente essere accompagnato includendo professionisti esperti, coloro cioè che sanno trasformare l’identità aziendale in un contest narrativo fortemente centrato sulle persone e sull’economia sociale e culturale, da difendere ad ogni costo.

* Articoli pubblicati su blog di Affari Italiani The Ghost Writer

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